Sada Mire: “Io, archeologa per salvare la Somalia”

Sada Mire ha 35 anni perché a 14 ha resistito appesa a una corda fuori da un camion che correva via da Mogadiscio, via dalla Somalia in guerra. Il resto, dopo, diventa quasi facile: da rifugiata in Svezia, studiare così tanto, lei e la sorella gemella, da guadagnarsi entrambe il difficile diploma in Scienze naturali, scegliere di fare la giornalista, sposarsi, passare allo studio dell’archeologia, prima scandinava, poi europea, infine africana, tornando nel Corno d’Africa per fare ricerca sul campo. Fino al risultato degli ultimi anni: ricercatrice di archeologia della Scuola di studi orientali e africani all’University College di Londra e direttore del Dipartimento delle Antichità del ministero del Turismo e della Cultura in Somaliland, la parte del territorio somalo fra Etiopia e Puntland che si è autoproclamata repubblica autonoma durante la guerra civile, nel 1991, e che vive da anni in relativa tranquillità, sebbene non riconosciuta a livello internazionale.

Lì Sada ha trovato come lavorare per proteggere il patrimonio culturale somalo, a cominciare da una delle più importanti scoperte archeologiche dell’ultimo decennio, le pitture neolitiche delle grotte di Las Geel, non lontane dalla capitale Hargheisa. La famiglia Mire viene proprio da Hargheisa, ma Sada ci tiene a dire che per lei, non fa differenza: «Non sono andata lì perché è il luogo delle mie origini, ma perché c’è la pace. Andrei volentieri anche a Mogadiscio, se fosse possibile». Mogadiscio: è lì che inizia la sua storia. Era il 1978 quando il padre commissario di polizia e la madre levatrice si spostarono con Sada e gli altri figli nella capitale della Somalia di Siad Barre. «Papà era stato promosso al Dipartimento centrale di investigazione criminale. Era uno dei più importanti investigatori del Paese, aveva fatto corsi di formazione in Russia e Germania, era molto bravo. Anche mia madre, come levatrice, faceva molto per quello che all’epoca era lo sforzo comune di costruire un nuovo Paese, contribuendo alla salute delle donne e insegnando loro a superare vecchie tradizioni pericolose come l’escissione e l’infibulazione delle bambine». Sada e la gemella Sohur andavano a scuola. «C’era stata la guerra con l’Etiopia per l’Ogaden, rivendicato dai somali ma rimasto poi agli etiopi: molti erano morti invano, si era persa la fiducia. Al potere c’erano i clan. E noi venivamo da Hargheisa, da dove fra l’82 e l’83 si muovevano i ribelli contro Siad Barre. Il governo sospettava che mio padre li appoggiasse, non era vero ma fu arrestato e torturato più volte, in quegli anni». Nell’88, mentre Hargheisa veniva bombardata, Sada e Sohur avevano 12 anni. A scuola erano fra i più bravi, ma fu trovato il modo di accusarle per una rissa alla quale non avevano partecipato. «Eravamo del clan sbagliato: era quella la vera ragione. Espulse, non trovammo nessun’altra  scuola che ci accettasse. Finimmo nell’istituto per i figli dei poliziotti e dei militari. Il peggiore. La corruzione era tale che quando provammo a fare l’esame di Stato per prendere la licenza, ci lasciarono partecipare, poi ci cancellarono dalle liste. Scoprimmo che bisognava pagare, o niente diploma. Ma papà era malato e non c’erano neppure i soldi per curarlo, figuriamoci per l’esame. Oltre agli effetti delle torture, nella guerra con l’Etiopia si era distrutto un rene, sarebbe servita la dialisi ma non ha potuto farla. È morto l’anno dopo». Di nuovo, c’era la guerra civile. «I fratelli più grandi erano già all’estero. Nel ’91, io, Sohur, altri due nostri fratelli, mia madre, mia nonna, ci spostammo fuori Mogadiscio, ad Afgoi. Mia nonna spinta su una carriola, noi a piedi. Credevamo finisse in poche settimane. Invece poi capimmo che bisognava lasciare la Somalia». I Mire trovarono un passaggio. Una famiglia benestante partiva con tutti i suoi beni ammassati su un camion. Prese le due adulte a bordo. Per Sada, Sohur e i fratelli, c’erano solo le corde attaccate alle fiancate: «Voi reggetevi forte», era l’ordine. «Abbiamo continuato a reggerci per mesi. Le strade principali erano piene di banditi, si sentivano continui racconti di stupri e violenze. Noi andavamo per piste in mezzo alla boscaglia. A volte, il camion avanzava fra i cespugli, senza nemmeno la terra battuta sotto le ruote. In realtà non so quanto è durata. Mesi di sicuro, ma non so quanti. Ero sotto shock. So che siamo arrivati a un campo profughi in Etiopia, poco oltre il confine». Un altro trauma. «I militari etiopi ci maltrattavano, le donne venivano regolarmente stuprate, vivevo terrorizzata». La famiglia Mire provò a spostarsi ad Hargheisa. «Avevamo sentito che ormai la città era pacifica e c’era un autobus che portava lì. Ma in città le strade erano piene di mine, tutte. La gente moriva camminando. La vecchia casa dei nonni era distrutta. Ci costruimmo una capanna di stuoie, alla maniera dei nomadi. La guerra però si avvicinava. Siamo fuggiti ancora, verso un altro campo profughi». Ma qualcuno cercava la famiglia Mire: c’era un messaggio che faceva il giro dei campi, il loro cognome segnalato da mesi a tutti i centri organizzativi. Era la sorella maggiore delle gemelle, arrivata in Svezia anni prima.

La nuova vita di Sada è iniziata a 15 anni in una casa di Malmö fornita dallo Stato, come i soldi per il cibo e la possibilità di studiare. Per lei, una conquista sulla quale ancora insiste come se si fosse trattato di un premio. «Io e mia sorella volevamo fare i medici. In Svezia questo significa passare per il liceo di Scienze naturali, che è considerato il più duro. C’era un professore che ripeteva sempre la stessa cosa: “È una scuola per figli di medici, per svedesi di buona famiglia e ben preparati. Voi siete due rifugiate, non ce la farete mai”. Partivamo dal sapere solo il somalo, ma ce l’abbiamo fatta». Ora nel suo curriculum Sada vanta inglese, svedese, norvegese, danese, arabo, francese. E tre anni di giornalismo alternati al lavoro in ospedale come assistente infermiera e a quello di insegnante di atletica. Infine, l’archeologia e dal 2003 il trasferimento a Londra, seguito dal ritorno in patria come studiosa e la creazione dell’Horn of Africa Heritage (http://somaliheritage.org): «Mi piace investigare, lo faceva mio padre nel suo lavoro. Mi piace la storia del passato, che mia nonna ci raccontava ogni sera da piccoli. E mi piace l’indipendenza, che mi ha insegnato il modo di vivere di mia madre. L’archeologia mette insieme le tre cose».

Alessandra Baduel for Repubblica SERA [20/03/2012]

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Immagini da Laas Gaal, lo splendido sito archeologico scoperto nel 2002 nella Somalia nord-occidentale (nell’area che si proclama indipendente, come Somaliland, e a livello internazionale è riconosciuta come regione autonoma). Le grotte contengono pitture rupestri che risalgono al periodo compreso tra il 9000 e il 3000 a.C., e sono tra le più antiche dell’Africa. La scoperta fu fatta da un archeologo francese, fino a quel momento le popolazioni locali consideravano l’area un luogo da guardare con deferenza e rispetto